“Se non attraverso la sofferenza dell’anima”.
Un modo per indicare la prova più temibile: il nostro viaggio nella notte, per giungere alla contemplazione dell’alba. In questa Pasqua che ci vede ancora una volta fragili e smarriti di fronte agli orrori del mondo, queste antiche parole sembrano toccare le corde più profonde della nostra sensibilità.
Non possiamo avere una risposta, questa resta al di sopra delle nostre capacità umane. Possiamo invece capire come far nascere di nuovo la vita dalle rovine di un impero perduto.
Il dolore ci porta al risveglio, all’azione, alla necessità di sfruttare il nostro talento, di resistere alla tempesta, di imparare a riconoscere finalmente il potere che abbiamo dentro di noi.
La morte, come presupposto della rinascita. È il mito pagano della Fenice che si sublima in una storia che trascende il senso cristiano più stretto e abbraccia invece l’umanità di ogni tempo di ogni luogo, e che contempla sia le sue luci che le sue, inevitabili, tenebre. La Risurrezione nell’arte è la storia visiva di una lunga odissea, il grande romanzo dell’ abbandono della caverna, come suggerito da Platone, per tentare l’impresa e correre il rischio di vedere la luce.
Pasqua è annuncio di una Rinascita, dello stupore di un sepolcro vuoto, della vittoria sulla morte.
Tutto si concentra sul tema della “tomba vuota”. Essa, tuttavia, non è sufficiente a “dimostrare” la resurrezione di Gesù.
Sulla base di una nuova analisi filologica, a proposito di un passaggio cruciale di questo racconto, alcuni studiosi propongono questa traduzione dal greco: “[Pietro] contemplò le fasce distese e il sudario, che era sul capo di lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”.
Le strisce di tela che avvolgevano il lenzuolo funerario (o sindone), se prima erano rialzate (perché all’interno c’era il corpo), ora sono “abbassate”, “distese”; cioè intatte, non manomesse, non disciolte.
Come poteva un telo rimanere “rialzato” ed “avvolto” senza nulla dentro?
Questo ci riporta al nocciolo della questione, ad un Mistero più forte di quello della morte, come soleva ripetere Oscar Wilde. Quello dell’amore e della speranza, una pulsione formidabile, capace di muovere davvero l’universo, come insegnava Dante.
Ancora una volta, è l’arte a illuminarci. L’iconografia ortodossa, ad esempio, non rappresenta il momento in cui Cristo viene fuori dal sepolcro, ma lo mostra risorto mentre infrange le porte degli inferi (mirabile è la bella icona intitolata: “Discesa agli inferi”, della seconda metà del XV secolo e conservata presso il Museo di Novgorod). In questo senso, la liturgia bizantina della domenica di Pasqua è molto suggestiva: la chiesa è chiusa, immersa nelle tenebre. Il sacerdote bussa per tre volte, restando all’esterno della chiesa, con la croce e gridando: “Aprite le porte al Signore delle potenze, al re della gloria”. Dall’interno, il sacrestano fa un grande strepitio di catenacci e ferraglie per esprimere una certa resistenza, infine apre. Perché l’amore è davvero più potente della morte. Il Cristo, che impugna la croce e scardina le porte degli inferi, strappando alle tenebre i progenitori Adamo ed Eva e con loro tutti i giusti dell’Antico Testamento, è il simbolo di una sofferenza feconda che conduce alla rinascita.
È la vita promessa che si realizza compiutamente dopo aver attraversato la notte dello Spirito, la prova più spaventosa, la cui portata resta un mistero insondabile.
Il tema iconografico della Resurrezione è quanto mai vasto e complesso, ma emerge chiaramente, sia nell’arte orientale che in quella occidentale.
Nell’affresco del Beato Angelico, conservato a Firenze, Gesù regge lo stendardo e il ramo di palma, simbolo di martirio e di gloria. L’angelo, vestito di bianco, è seduto sul sarcofago e con i gesti delle mani spiega l’accaduto, mostrando il sepolcro vuoto e indicando l’alto. Fra le opere dedicate alla Pasqua, celebre è “La resurrezione di Cristo” di Piero Della Francesca.
«Il quadro più bello del mondo», secondo Aldous Huxley.
L’affresco fu eseguito da Piero Della Francesca, tra il 1450 e il 1463 nel palazzo del governo di Arezzo. La scena si svolge in una cornice immaginaria che offre un delizioso scorcio su un esterno. Qui, al centro, la figura di Cristo si solleva dal sepolcro, con aspetto solenne e sacrale e il vessillo crociato in mano. I soldati dormono alla base del sepolcro, creando così un contrasto con la divinità sempre vigile e la fragilità della condizione umana, fallace per sua stessa natura, malgrado la scintilla divina. Sullo sfondo, il paesaggio ha un aspetto invernale e spoglio a sinistra, mentre è rigoglioso a destra, a significare la continuità del ciclo della vita.
Come non citare, ancora, le notevoli Resurrezioni di Tiziano, di Tintoretto e del Tiepolo, che ben colgono lo stupore e la consapevolezza dell’evento prodigioso visto secondo gli occhi del discepolo più amato, Giovanni. In queste tele, gli angeli rovesciano la pietra del sepolcro da cui Cristo Risorto esce circondato di luce, portando una croce o uno stendardo come vessillo di vittoria. Ma può anche mostrare, invece, le piaghe della crocifissione, come il Cristo sorridente, modernissimo e quasi psichedelico, dal globo luminoso, di Mathias Grunewald. Perché ci sono molti modi per esprimere il sacro.
Il napoletano Luca Giordano – detto Luca Fa Presto per la velocità e copiosità della sua produzione artistica – ci consegna una Resurrezione quasi tridimensionale, persino eccessiva – rococò – nell’opporre luci e ombre. Nell’opera dell’artista partenopeo, Cristo ascende in trionfo al regno divino e gli uomini miscredenti sono irrimediabilmente schiacciati nella porzione più bassa della tela (e dell’universo).
La storia dell’arte ha un compito fondamentale, non solo quello di educare ma di vedere ciò che è invisibile. E il suo compito ultimo è di farci, in qualche modo, toccare la fede e la straordinarietà di quel prodigio, a somiglianza degli dei, che è l’Umanità, seppur nelle sue mille dicotomie.
Come dice papa Francesco, le opere d’arte danno davvero testimonianza delle nostre aspirazioni spirituali.