“L’amica geniale”: una recensione infingarda
Siamo arrivati al termine del viaggio dell’Amica Geniale. Come sempre, prevale la visione del tempo circolare su quella lineare. Come sapevano gli Antichi. Il grande protagonista della saga di Elena Ferrante, contrariamente a quello che si crede, non è “l’amica geniale”. E’ il destino.
La sensazione finale, vedendo la serie tv e prima ancora leggendo i libri, è quella di un’opprimente angoscia, di una tristezza profonda e irreversibile. Ho avuto uno strano rapporto, fatto di attrazione e di repulsione, con questa saga e con la sua trasposizione in fiction. Andando oltre la prova dell’attrice che interpreta nella quarta stagione Lila, Irene Maiorino, e quella di Enzo, al secolo Pio Stellaccio, ho trovato questa serie poco credibile sotto diversi punti di vista e caotica. L’epilogo è stato precipitoso, sono stati fatti tagli importanti alla storia, dimostrando uno dei limiti delle serie nostrane e non ( vedi Game of Thrones), che a un certo punto sembrano perdersi in sceneggiature inverosimili e sciatte, frettolose. Una saga così importante meritava un finale più lento. Detto questo, “LL’Amica geniale” è una meravigliosa operazione commerciale, studiata a tavolino fin nei minimi dettagli, ad opera di uno o più autori, inseriti in un sistema ben collaudato. La storia ha indubbi meriti, come la caratterizzazione delle protagoniste , le Amiche geniali, agli antipodi e che riflette gli strani ingranaggi della vita. Lila è intelligente, forte, audace, ribelle, ma suscita l’invidia delle persone e degli dei, la sua vita procederà per sottrazioni drammatiche malgrado i suoi sforzi per cercare un riscatto e la felicità. Tutti, come vampiri psichici, le succhieranno il sangue e l’energia vitale, rubandole, di volta in volta, la sua genialità, infine annullandola. Elena, la finta santarellina, che non ha particolari talenti, se non quello di saper sfruttare abilmente le situazioni e le persone a suo vantaggio, è invece nata sotto un cielo fortunato che le rende e le concede tutto, senza la minima fatica. E quando sbaglia – e sbaglia parecchio la signora- tutti la perdonano velocemente. Per Lila, nessuna clemenza. In questo, la saga di Elena Ferrante è un’opera estremamente realistica. Mi convince meno la rigida separazione tra l’universo maschile, sporco, gretto e cattivo, e quello femminile, lindo e cristallino, dove sono tutte vittime innocenti, persino le signore più controverse, e dove, proprio per questo, Lila, che novella principessa Zaffiro è dotata di due cuori, non riuscirà mai a trovare spazio. Ancora meno mi piace l’immagine di una città senza speranza, cupa, fosca, violenta, brutta. La Napoli degli anni Ottanta, è vero, è segnata da brutali episodi di camorra, ma è anche quella dell’ascesa di Maradona, delle persone in piazza, che celebravano con allegria la vittoria di uno scudetto che sapeva di riscatto, della rinascita dopo il terremoto, dei pomeriggi all’Edenlandia e del Natale, quello vero. Io me la ricordo questa Napoli, non era il paradiso, ma neppure l’inferno che viene descritto dalla Ferrante. E me le ricordo le periferie di quegli anni, luoghi complessi, certo, ma non privi di bellezza e di dolcezza. Mia madre, quando ero piccola, ha insegnato nella famigerata 167 e io spesso andavo con lei. E vi posso garantire che per mia madre è stato il periodo professionale più stimolante e bello. Il rispetto che ha avuto dalle mamme della 167, dai figli dei carcerati e dei disoccupati, non l’ha mai più avuto e trovato nei quartieri “bene”. E la Ferrante omette volontariamente tutto questo, descrivendo rioni squallidi e una città che non riesce ad andare oltre lo stereotipo, cadendo in quella trappola per topi che vuole Partenope cinta di pizza e di alloro, tra mandolini e smargiassate, o coperta di fango e di vergogna. Non è così. Non sono portata per il manicheismo e credo che nella mancanza di sfumature e di obiettività vi siano i limiti più grandi di questa storia, che comunque ha il pregio di catturare l’attenzione. Resta, infine, la profonda amarezza per il destino della bambina perduta, simbolo di tutti i bimbi che dormono, chissà dove, sospesi come nature morte.
La messa in onda della tetralogia, dal 2018 al 2024, ha segnato un’epoca di grandi trasformazioni, l’universo si è composto e ricomposto non una, ma mille volte. Anche per me.
E in questa continua composizione e scomposizione consiste il lascito morale di Lila per tutti noi. Ed è forse per questo che la saga, malgrado tutto e malgrado le opinioni personali, resterà nei nostri cuori.
Tutto inizia e finisce con due bambole sgangherate, metafora degli universi possibili, delle cose che potevano essere e non sono state, delle sottrazioni e della fragilità non dei sentimenti ma delle relazioni, della vita che inevitabilmente ti cambia e dei ritorni che prendono forma solo nei giardini della nostra memoria, dove si vive in uno sconfinato e consolatorio presente immaginato. Sulle note della Primavera di Vivaldi riadattata da Max Richter.